Postato 02 settembre 2006 - 16:59
...Ommo se nasce, brigante se more
Mi chiamo Paolo.Ho 51 anni. Ho vissuto tutta la mia vita nel cuore di Roma: Trastevere. Mia madre ha un negozio di frutteria da generazioni, i suoi genitori lavoravano nella frutteria, le sue sorelle lavoravano nella frutteria, io e i miei fratelli lavoriamo nella frutteria.
Mariella è la più piccola, l’unica femmina, poi c’è Giuseppe, Giovanni e Luca. Poi ci sono io. Oggi verrei definito come “transessuale” per me non ha importanza, voi chiamatemi come volete, io sono io, quello che vi sentite di voler specificare, lo fareste comunque, anche se io non volessi.
Non sono un tipo facile. La mia vita è stata difficile fino ad oggi, ma la mia famiglia è tutto per me, e non riuscirei a rinunciare a qualcuno di loro. Mamma, la sora Eva la chiamano, è una vera signora: tutti la rispettano qui nel quartiere, il nostro negozio è conosciuto da tutti, e ancora oggi che non è più il “nostro”, la gente che sta lì da sempre, lo chiama la frutteria de la sora Eva.
Quando mamma ha deciso di vendere il negozio, perché lei non ce la faceva più da sola, è stato l’unico momento della mia vita in cui avrei voluto ammazzarla di botte, abbiamo discusso tanto per telefono. Ma che ho fatto io per aiutarla poi…lontano dalla sua vita, l’ho lasciata piangere,convinto che non avrei potuto fare nulla. Quella frutteria era tutto ciò che ci teneva uniti e oggi si è trasformata in cinquanta milioni di lire ciascuno da mettere in tasca, tutti felici e contenti. A me li devono ancora dare. Che centra. Hanno detto che se no, me li bevevo. Non che avessero poi tutti i torti, ma adesso non lo farei, adesso che sto finendo la mia vita ne avrei bisogno.
Papà era un debole, non era cattivo, lasciava che il seno abbondante di mamma lo riempisse, la guardava e accettava tutto ciò che lei diceva, non era quello che si può chiamare padre-padrone, anzi. Sapeva guardare con i suoi occhietti piccoli e lucidi al di là delle apparenze, ma non parlava mai. Aveva accettato il mio essere così, ma non me lo aveva mai detto, lasciava che il tempo coprisse le ferite e poi finiva le sue serate al bar, lontano dalle nostre grida, lontano dalle paure.
Mi piaceva lavorare per mamma, mi piaceva quando mi mandava dalle signore coi soldi, a volte, se finivo prima, avevo il tempo di fermarmi da qualcuna di loro e chiedere il permesso di consigliarle nella scelta di certi vestiti, luccicosi e morbidi al tatto, di quelli che si indossano nelle serate importanti. Mi incantava quel mondo e io ne facevo parte. A volte accompagnavo Giuseppe, mio fratello più grande. Lui mi sa che un po’ di me si vergognava, non me lo diceva, però spesso mi dava le botte, così, senza un vero motivo. E poi mi diceva di non salire con lui dai clienti, mi faceva aspettare in fondo alle scale, e allora io scappavo. Una volta gli aveva preso che prima di lasciarmi in fondo alle scale, mi toglieva le scarpe, così io non potevo scappare. Però me ne sono andato lo stesso, non le volevo le sue botte, e a mamma non lo dicevo, e così sono scappato a piedi nudi, mi sono infilato sul 75 e so’ tornato a casa. Quante ne ho prese dopo…
Mamma mi sorrideva, tirava su le maniche del vestito, si sfregava le mani, e mi raccontava una storia che faceva ridere, mentre impastava le fettuccine per la domenica, non mi chiedeva niente, però lo capiva che avevo pianto. Il suo silenzio complice mi ha accompagnato nella mia vita, e lei cresceva con me. Però le sue lacrimle io le vedevo. Le vedevo dal suo angolino buio scendere sul viso, la notte, quando rientravo in silenzio per non svegliare tutti. Io, tremante sui miei tacchi a spillo, barcollante per il troppo alcool nelle vene, raggiungevo il mio letto sfinita, senza nemmeno struccarmi, con il sapore salato delle sue lacrime, e ancora l’odore di sesso sul mio viso. Però ero bella. Mamma mi cuciva spesso i vestiti, sfilavo con un fisico impeccabile, fasciata in rossi brillanti, coscientemente insensibile agli sguardi, spavaldamente presente alle occasioni mondane di una Roma che cambiava, stretta nella morsa delle manifestazioni di piazza e le poltrone calde e pronte di chi il potere non se lo guadagnava.
Una volta, mi ricordo, si inaugurava un certo locale, oggi famoso, e gli amici, quei figli di puttana, esigevano la mia presenza con tanto di entrata trionfale. Non avevo i soldi per un vestito all’altezza di tale situazione. Fu la mamma a salvarmi, quello sguardo vivo me lo ricordo ancora. Prese da un armadio polveroso l’abito da sposa di Mariella e disse: -mica vorrai che se lo mangino i tarli!- e incominciò a tagliare le maniche, e poi la scollatura, e poi a fasciarlo intorno al mio corpo magro e sinuoso, stretta e bellissima, ero una donna meravigliosa. Il mio amico Peppe, aveva un paio di favori da incassare, mi procurò una carrozzela coi cavalli, di quelle che ci porti i turisti in giro al Colosseo, assicurandomi l’entrata più trionfante che io potessi immaginare, che manco Cenerentola se la sarebbe mai potuta sognare.
-‘nvedi Paoletto che sventola-
Li immaginavo già i commenti assetati. E io trionfante all’entrata del locale. Faccio per scendere dalle scalette della carrozza, ma non ti vado ad inciampare proprio sul più bello? E indovinate voi cos’era il più bello? Merda di cavallo!!! Capito??? Pieno dalla testa ai piedi, sposa grondante di cacca, avvampata di vergogna, me ne son dovuta tornare a casa tra gli urli di mia madre e le risate degli amici. Non avevo bisogno di dimostrare niente a nessuno, se non a me stessa quanto era importante il farmi accettare in quell’ambiente, offrendo ciò che ero: fenomeno da baraccone sulla soglia della presa di coscienza della mia anima, consapevole creatura stretta nella mia individualità e coerenza. Lucida e ignara delle cattiverie che mi giravano intorno come serpenti velenosi pronti a sbranarmi. Fu lei, mia mamma, come al solito, a leggere i miei occhi, insieme a mia sorella Mariella. Presero un vecchio mio vestito attillatissimo, rosso fuoco, e me lo riadattarono per farmi riuscire trionfante e ancor più fasciata, e quasi senza respiro, immobilizzata e impossibilitata a sedermi per qualsiasi motivo.
Quei due matti dei miei amici mi ficcarono in una macchina da sdraiata, per non farmi fare uno strappo stavolta davvero fuori luogo, e mi spedirono direttamente in quel mondo, fatto di cocktails, sigarette e gente coi soldi.
Tutto bene a ripensarci, salvo che uno per invitarmi a bere con lui, mi costrinse a sedermi, il vestito non ce la fece, si strappò esattamente in verticale aprendosi in due. Un episodio discretamente fastidioso, che mi costrinse a ballare muovendomi con improbabile sinuosità. Un successo!
Ciò che avvenne in seguito nella mia vita non ve lo racconto, ma non perché io me ne vergogni, ma perché avete visto già una quantità discreta di films-verità che vi ha dotato di un bagaglio culturale notevole sulle persone come me. Niente racconti, niente giudizi. Così sembra più facile.
Oggi mamma non c’è più. Così come la mia famiglia, che ha smesso di sopportarmi quando il legame frutteria-mamma si è sciolto per sempre. Al mio fianco solo Mariella e i suoi figli. A volte litigo con suo marito, ma nell’insieme non posso lamentarmi. I suoi occhi si sono sostituiti a quelli di mamma e forse anche un po’ al mio dolore.
Ho vissuto venti anni con Patrizio, un gioielliere di piazza San Cosimato. Gli voglio bene, ma solo oggi mi rendo conto di avergli voluto bene come a uno di quei fratelli che non mi hanno mai voluto. Lui continua a venirmi a trovare qui, e ormai lo conoscono tutti, amici e infermiere, responsabili e psicologi. Quando viene Mariella a trovarmi, riconosco subito che la collana che indossa gliel’ha regalata Patrizio, come fosse uno di famiglia, come a voler lasciare un ricordo che non si cancella.
Ho l’aids.
Sono cinque anni ormai che l’ho scoperto.
A lui l’ho detto subito, per fortuna ne è rimasto fuori.
Non sto male, le nuove terapie sono efficaci, ma il mio viaggio non sarà lungo, lo so.
Quello che vorrei tanto prima di andarmene, sarebbe rivedere i miei fratelli e sapere che poi alla fine, al matrimonio dei figli di Mariella, ci sono andati, che colpa ne hanno loro di una zia malata.
A me rimane la frutteria che ho nel cuore, quando io e mamma addobbavamo i cesti con la frutta, messa in ordine a seconda della gradazione del colore.
Mi chiamo Paolo.Ho 51 anni. Ho vissuto tutta la mia vita nel cuore di Roma: Trastevere. Mia madre ha un negozio di frutteria da generazioni, i suoi genitori lavoravano nella frutteria, le sue sorelle lavoravano nella frutteria, io e i miei fratelli lavoriamo nella frutteria.
Mariella è la più piccola, l’unica femmina, poi c’è Giuseppe, Giovanni e Luca. Poi ci sono io. Oggi verrei definito come “transessuale” per me non ha importanza, voi chiamatemi come volete, io sono io, quello che vi sentite di voler specificare, lo fareste comunque, anche se io non volessi.
Non sono un tipo facile. La mia vita è stata difficile fino ad oggi, ma la mia famiglia è tutto per me, e non riuscirei a rinunciare a qualcuno di loro. Mamma, la sora Eva la chiamano, è una vera signora: tutti la rispettano qui nel quartiere, il nostro negozio è conosciuto da tutti, e ancora oggi che non è più il “nostro”, la gente che sta lì da sempre, lo chiama la frutteria de la sora Eva.
Quando mamma ha deciso di vendere il negozio, perché lei non ce la faceva più da sola, è stato l’unico momento della mia vita in cui avrei voluto ammazzarla di botte, abbiamo discusso tanto per telefono. Ma che ho fatto io per aiutarla poi…lontano dalla sua vita, l’ho lasciata piangere,convinto che non avrei potuto fare nulla. Quella frutteria era tutto ciò che ci teneva uniti e oggi si è trasformata in cinquanta milioni di lire ciascuno da mettere in tasca, tutti felici e contenti. A me li devono ancora dare. Che centra. Hanno detto che se no, me li bevevo. Non che avessero poi tutti i torti, ma adesso non lo farei, adesso che sto finendo la mia vita ne avrei bisogno.
Papà era un debole, non era cattivo, lasciava che il seno abbondante di mamma lo riempisse, la guardava e accettava tutto ciò che lei diceva, non era quello che si può chiamare padre-padrone, anzi. Sapeva guardare con i suoi occhietti piccoli e lucidi al di là delle apparenze, ma non parlava mai. Aveva accettato il mio essere così, ma non me lo aveva mai detto, lasciava che il tempo coprisse le ferite e poi finiva le sue serate al bar, lontano dalle nostre grida, lontano dalle paure.
Mi piaceva lavorare per mamma, mi piaceva quando mi mandava dalle signore coi soldi, a volte, se finivo prima, avevo il tempo di fermarmi da qualcuna di loro e chiedere il permesso di consigliarle nella scelta di certi vestiti, luccicosi e morbidi al tatto, di quelli che si indossano nelle serate importanti. Mi incantava quel mondo e io ne facevo parte. A volte accompagnavo Giuseppe, mio fratello più grande. Lui mi sa che un po’ di me si vergognava, non me lo diceva, però spesso mi dava le botte, così, senza un vero motivo. E poi mi diceva di non salire con lui dai clienti, mi faceva aspettare in fondo alle scale, e allora io scappavo. Una volta gli aveva preso che prima di lasciarmi in fondo alle scale, mi toglieva le scarpe, così io non potevo scappare. Però me ne sono andato lo stesso, non le volevo le sue botte, e a mamma non lo dicevo, e così sono scappato a piedi nudi, mi sono infilato sul 75 e so’ tornato a casa. Quante ne ho prese dopo…
Mamma mi sorrideva, tirava su le maniche del vestito, si sfregava le mani, e mi raccontava una storia che faceva ridere, mentre impastava le fettuccine per la domenica, non mi chiedeva niente, però lo capiva che avevo pianto. Il suo silenzio complice mi ha accompagnato nella mia vita, e lei cresceva con me. Però le sue lacrimle io le vedevo. Le vedevo dal suo angolino buio scendere sul viso, la notte, quando rientravo in silenzio per non svegliare tutti. Io, tremante sui miei tacchi a spillo, barcollante per il troppo alcool nelle vene, raggiungevo il mio letto sfinita, senza nemmeno struccarmi, con il sapore salato delle sue lacrime, e ancora l’odore di sesso sul mio viso. Però ero bella. Mamma mi cuciva spesso i vestiti, sfilavo con un fisico impeccabile, fasciata in rossi brillanti, coscientemente insensibile agli sguardi, spavaldamente presente alle occasioni mondane di una Roma che cambiava, stretta nella morsa delle manifestazioni di piazza e le poltrone calde e pronte di chi il potere non se lo guadagnava.
Una volta, mi ricordo, si inaugurava un certo locale, oggi famoso, e gli amici, quei figli di puttana, esigevano la mia presenza con tanto di entrata trionfale. Non avevo i soldi per un vestito all’altezza di tale situazione. Fu la mamma a salvarmi, quello sguardo vivo me lo ricordo ancora. Prese da un armadio polveroso l’abito da sposa di Mariella e disse: -mica vorrai che se lo mangino i tarli!- e incominciò a tagliare le maniche, e poi la scollatura, e poi a fasciarlo intorno al mio corpo magro e sinuoso, stretta e bellissima, ero una donna meravigliosa. Il mio amico Peppe, aveva un paio di favori da incassare, mi procurò una carrozzela coi cavalli, di quelle che ci porti i turisti in giro al Colosseo, assicurandomi l’entrata più trionfante che io potessi immaginare, che manco Cenerentola se la sarebbe mai potuta sognare.
-‘nvedi Paoletto che sventola-
Li immaginavo già i commenti assetati. E io trionfante all’entrata del locale. Faccio per scendere dalle scalette della carrozza, ma non ti vado ad inciampare proprio sul più bello? E indovinate voi cos’era il più bello? Merda di cavallo!!! Capito??? Pieno dalla testa ai piedi, sposa grondante di cacca, avvampata di vergogna, me ne son dovuta tornare a casa tra gli urli di mia madre e le risate degli amici. Non avevo bisogno di dimostrare niente a nessuno, se non a me stessa quanto era importante il farmi accettare in quell’ambiente, offrendo ciò che ero: fenomeno da baraccone sulla soglia della presa di coscienza della mia anima, consapevole creatura stretta nella mia individualità e coerenza. Lucida e ignara delle cattiverie che mi giravano intorno come serpenti velenosi pronti a sbranarmi. Fu lei, mia mamma, come al solito, a leggere i miei occhi, insieme a mia sorella Mariella. Presero un vecchio mio vestito attillatissimo, rosso fuoco, e me lo riadattarono per farmi riuscire trionfante e ancor più fasciata, e quasi senza respiro, immobilizzata e impossibilitata a sedermi per qualsiasi motivo.
Quei due matti dei miei amici mi ficcarono in una macchina da sdraiata, per non farmi fare uno strappo stavolta davvero fuori luogo, e mi spedirono direttamente in quel mondo, fatto di cocktails, sigarette e gente coi soldi.
Tutto bene a ripensarci, salvo che uno per invitarmi a bere con lui, mi costrinse a sedermi, il vestito non ce la fece, si strappò esattamente in verticale aprendosi in due. Un episodio discretamente fastidioso, che mi costrinse a ballare muovendomi con improbabile sinuosità. Un successo!
Ciò che avvenne in seguito nella mia vita non ve lo racconto, ma non perché io me ne vergogni, ma perché avete visto già una quantità discreta di films-verità che vi ha dotato di un bagaglio culturale notevole sulle persone come me. Niente racconti, niente giudizi. Così sembra più facile.
Oggi mamma non c’è più. Così come la mia famiglia, che ha smesso di sopportarmi quando il legame frutteria-mamma si è sciolto per sempre. Al mio fianco solo Mariella e i suoi figli. A volte litigo con suo marito, ma nell’insieme non posso lamentarmi. I suoi occhi si sono sostituiti a quelli di mamma e forse anche un po’ al mio dolore.
Ho vissuto venti anni con Patrizio, un gioielliere di piazza San Cosimato. Gli voglio bene, ma solo oggi mi rendo conto di avergli voluto bene come a uno di quei fratelli che non mi hanno mai voluto. Lui continua a venirmi a trovare qui, e ormai lo conoscono tutti, amici e infermiere, responsabili e psicologi. Quando viene Mariella a trovarmi, riconosco subito che la collana che indossa gliel’ha regalata Patrizio, come fosse uno di famiglia, come a voler lasciare un ricordo che non si cancella.
Ho l’aids.
Sono cinque anni ormai che l’ho scoperto.
A lui l’ho detto subito, per fortuna ne è rimasto fuori.
Non sto male, le nuove terapie sono efficaci, ma il mio viaggio non sarà lungo, lo so.
Quello che vorrei tanto prima di andarmene, sarebbe rivedere i miei fratelli e sapere che poi alla fine, al matrimonio dei figli di Mariella, ci sono andati, che colpa ne hanno loro di una zia malata.
A me rimane la frutteria che ho nel cuore, quando io e mamma addobbavamo i cesti con la frutta, messa in ordine a seconda della gradazione del colore.
il cuore di trastevere, ci stanno gli zii di mio marito, il negozio di fiori, zia del fantino di Varenne, mi ha mandato i fiori quando mi sono sposata, che piccolo spaccato di umanità incredibile.
RispondiEliminaChe bella storia, che storia ... un figlio gay transessuale chiamalo come vuoi, alla fine va amato e protetto da questo mondo crudele. Bacioni cari
ilaria, e pensa che questa non è una storia inventata, ma una storia che un giorno qualcuno mi ha raccontato e che io anni fa ho tradotto con il mio linguaggio...
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