"La mamma sta bene. Lo sa anche Picasso che è una bugia. Che le mamme intrise di dolore fanno paura. E non c'è rimedio che lenisca, finchè non riescono a uscire loro stesse dall'abisso. E non c'è modo di affrettarne il ritorno alla vita. Ma almeno abbiate compassione. E rispetto. "
Ciao Lapo Onlus
Sono giorni che mi frullano in testa tante parole, sarà che non sono più immune al dolore anche se non mi riguarda più direttamente, sarà che non mi è più possibile passare oltre, sarà che il dolore mi gira intorno, poi mi scova, ne annuso la presenza da lontano, e non sbaglio mai. Non sbaglio più.
Il dolore va attraversato, ci si convive insieme, prende forma e poi spazio nel cuore, con il tempo, piano piano, e poi si impara a gestirlo. Ci vuole tempo ed esperienza, ma una volta provato non si è più immune, ormai fa parte di te, e non si guarisce. Ma non è una cosa negativa questa. Se sei ammalato di dolore sviluppi una sensibilità verso gli altri e riguardo i fatti che ti girano intorno, che, seppur non ti lasciano indifferente e fanno sempre lavorare cuore e testa, io considero comunque un dono.
Non è facile ok. Ma non si può non considerare il fatto che l'apertura al mondo ti eleva ad un gradino dal quale osservi la vita con un punto di vista che mai avevi raggiunto prima.
Gestire il dolore è altro affare e su quello ci si sta lavorando.
Ho chiesto silenzio durante il massimo dolore perchè mi sono sentita smarrita, non sapevo cosa fare, non sapevo gestirmi, tanto meno riuscivo a capire come mitigare quell'ondata che mi investiva con violenza e mi lasciava senza fiato. Poi, dopo lo tsunami, quando tutto intorno a me era deserto e desolazione, ho teso le mani per rialzarmi e spesso, non ho trovato nessuno a tirarmi su.
Le parole che mi sono state rivolte in alcuni casi sono state proprio quelle riguardanti l'incapacità a saper gestire il mio dolore, quella situazione. E in effetti ho capito, ho giustificato.
A volte ho suggerito io, a volte ho dichiarato che lo capivo il perchè di certi allontanamenti che secondo me derivavano dal non saper gestire una situazione come la mia, eppure mi è stato risposto che non era affatto così.
Diffidare da tale sicurezza, quelle sono le persone che pretendono un comportamento sempre e comunque costante da te. Nonostante lo tsunami.
Non affronto in questa sede il dolore a seguito della perdita di una persona cara, parliamo di quello di cui normalmente scrivo qui. Parliamo dell'aborto finito in un raschiamento, l'ultimo in ordine di tempo.
Di tutte le interruzioni di gravidanza vissute, nonostante l'aver rischiato la vita con l'extrauterina (forse perchè quella volta viveva in me un certo stato di incoscienza), ecco nonostante ciò, dicevo, la più dolorosa in assoluto è stata la perdita fisica dopo il raschiamento. Sarà che un raschiamento dopo una gravidanza ottenuta con pma è davvero difficile da affrontare fisicamente, dopo mesi di punture, letto, medicine, esami, vane ecografie. Sarà che la pma è tanta roba, tanto accumulo di speranza, tante situazioni, belle, brutte, tanto tempo prima e tanto tempo dopo, tempo sottile, che si diluisce nel tuo sangue, diventa dialogo continuo tra te e tuo figlio.
La mia gravidanza non è andata bene dall'inizio: di quel periodo ricordo il letto, il computer, la tv, i libri e le punture. Poi ricordo perfettamente la sua presenza dentro di me e il mio corpo che cambiava, e un sottile, costante, flebile dolore, che mi ricordava che le cose no, non stavano andando per niente bene. Tutto teso alla vita, mica alla morte. Tutto un lavoro proteso verso la luce, mica verso il buio.
Poi ti abitui anche a questo.
Però, quando tuo figlio smette di vivere, il tuo corpo mica lo sa e pensa che deve continuare a lavorare, e il raschiamento, orrendo termine per descrivere ciò che avviene realmente, porta te stessa e il tuo corpo alla pazzia. Improvvisamente "toglie" ciò per cui vivevi. Improvvisamente, il buio, pur volendo la luce.
Calo ormonale, lo definisce la medicina.
Nel giro di poche ore arriva lo tsunami e tu, per non morire, non puoi fare altro che prendere fiato e reggere l'apnea, stringendoti ad una roccia (il tuo uomo) e aspettare che finisca. Perchè non sai che altro fare per non morire, pur volendolo in quel momento, pur avendo l'impulso di lasciare la presa e lasciarti andare.
Ecco, io credo che per chiunque viva questo (o un altro tipo di dolore così sconvolgente) si debba il rispetto, quel rispetto che concede la giustificazione di un comportamento, agli occhi degli altri, irrazionale, senza spiegazioni.
Il rispetto si impara, anche se non si è in grado, e non si pretende da chi prova quel dolore.
Ricordo i periodi intorno ai miei lutti come i più difficili da gestire con gli altri, ricordo la mia inadeguatezza e il mio senso di colpa per il mio rendere nuda la mia sofferenza, parlandone, scrivendone, allontanandomi da chi non comprendeva come fosse innaturale per me in quel momento accettare le gravidanze nate parallele alla mia. Non ero arrabbiata con nessuno, non ero gelosa di nessun altra pancia, mi chiedevo solo "perchè mio figlio no". Perchè mio figlio se ne era andato. E ogni passaggio, ogni conquista altrui, ogni ecografia, battito di cuore, movimento fetale era per me la tomba della speranza che avevo cercato di tenere accesa per tanto tempo. Mi sono giudicata. Mi sono sentita come una brutta persona. Ho cercato di spiegare in lacrime. Mi sono costretta nel cercare di comprendere chi mi era intorno. L'ho fatto male. Ho chiesto maldestramente scusa. Non è servito.
Ci si trincea dietro le proprie convinzioni per non attraversare quel dolore, per non volerlo gestire.
Con il tempo ho smesso di chiedere di essere compresa.
Ho imparato a volermi più bene, nonostante il vuoto intorno, sapendo che non era affatto dentro di me.
Ma non riuscirò mai a dimenticare quella non gestione del dolore che mi ha spogliato della mia identità di madre, che non ha riconosciuto l'esistenza di mio figlio, che non ha rispettato quella mia sorda sofferenza di genitore mancato.
Con il tempo ho avvertito come un sottile odio verso di me e quello che rappresentavo, come fossi diventata lo specchio di ciò che non si è riuscito a risolvere.
Pesa su di me tutto questo.
Ogni giorno.
A volte compaiono parole e gesti e sguardi, che mi spezzano in due e mi costringono a notti in bianco affogate nelle lacrime.
E anche se non sono arrabbiata ora, perchè la rabbia non costruisce, pur essendo a volte necessaria ma solo se circoscritta, io non giustifico più.
"... Ma almeno abbiate compassione. E rispetto. "
Tutti gli uomini sanno che non esistono consigli di conforto al dolore, eppure, di fronte al dolore di altri si cerca di dire qualcosa, consolare, se non altro per sussurrare che…. esiste qualcuno lì, oltre al dolore. Sussurrare qualcosa di banale, per dire di più: “Io sono con te”.
Stephen Littleword, Nulla è per caso
(*)queste parole sono per te.