Ogni giorno, dal 30 ottobre, mi sveglio nel cuore della notte e guardo passare davanti a me immagini di persone che non ci sono più camminare lungo le vie del paese. Quel paese, il mio, che ora non c'è più.
Le vedo adesso, camminare li, nel mio paese senza vita, camminare sulle macerie, poggiare le mani sui muri sgretolati, alzare lo sguardo sul campanile la cui campana non suona più.
Ora il mio paese é il loro. Anime che viaggiano in non-luoghi. Siamo andati via noi vivi e sono tornati loro per non abbandonare il paese morto.
Vedo mio nonno appoggiato al bastone leggere il giornale seduto sulle scalette fuori della porta.
Vedo mia nonna nell'angolo tra il campanile e l'abside della chiesa. Quello è il suo punto preferito. Il posto migliore di tutto il paese, all'ombra, con le spalle protette dal muro.
Vedo mia suocera, seduta nel giardino sotto il grande pino, che fa l'uncinetto e osserva le persone passare. Mi guarda e mi sorride e mi porge il caffè.
Vedo quel signore con il pancione, in cima alla salita, prendere il sole a dorso nudo e cacciare noi bambini con fare brusco.
Mi giro e c'è AnnaRosa vestita di nero, con il fazzoletto in testa, seduta sul muretto, lo sguardo furbo e limpido . Vedo sua nuora Renata, sbracciarsi per il caldo, nonostante la neve, ha sempre caldo lei.
Lungo la strada sterrata, non so perché la vedo come prima che la asfaltassero, incontro Pio il pastore, con il cappello calato sugli occhi e la faccia che ride. Incontro gli occhi dolci di Mariano, quelli buoni di Peppe e Silvana.
Arrivo davanti la mia casa, e vedo quel giorno di agosto del '98 quando incontrai mio marito, quell'istante in cui mi innamorai per sempre di lui, davanti la mia casa, che ora, non esiste più.
Entro in casa. Si percorre un corridoio rosa su cui si affacciano due camere da letto, dove dormivamo noi bambini. Il portone d'ingresso è verde con un sopra luce di vetro ad arco. Sopra ci appoggio la chiave per entrare, una lunga chiave di ferro. Ci sono due nicchie sul muro coperte con tendine a fiori, dietro ci sono delle bottiglie. Le camere da letto sono una azzurra e una rosa. Hanno una finestra per uno con appese delle tendine di merletto fatte da mia nonna paterna, che io non ho mai conosciuto. Il soffitto è di legno e i travetti sono stati colorati come le pareti. C'è odore di polvere e di casa chiusa e a terra ci sono degli insetti morti non sopravvissuti all'inverno.
Mi lascio il corridoio alle spalle e arrivo in soggiorno.
C'è un camino all'angolo, sulla cappa è stato dipinto un paesaggio con il carboncino da un pittore amico dei miei zii. A destra una credenza celeste. Dentro ci sono le tazze per la colazione. Una rossa e una blu, a pois. Ogni mattina quelle tazze sono riempite di latte appena munto, non pastorizzato, che puzza, e a me viene da vomitare. Ogni mattina.
C'è un tavolo verde lungo in mezzo alla stanza: intorno al tavolo mangiano tutti i miei zii andati via, Silvio, Aldo, Gigi, Santina. Mi guardano, smettono di mangiare e sorridono.
Io mi siedo sul divano marrone di finta pelle. Ci passo l'estate a leggere Topolino. A sinistra c'è un mobile da pranzo con la vetrina scorrevole, dentro ci sono delle tazzine con il piattino e il filo d'oro. Sotto, nella credenza senza i vetri, ci sono i biscotti grandi da inzuppare nel latte, il pane senza sale fresco, la Nutella per la merenda e il ciauscolo per la cena. Apro gli sportelli spesso, perché dentro c'è un forte odore di buono. Lo sento, ora, perfettamente. È buono. Mi rassicura.
Questa casa non c'è più dal 30 ottobre.
Questa terra è morta e con lei, una parte di me.
Sono una pianta a cui hanno tagliato le radici.
I miei bambini non hanno potuto correre lungo queste vie, guardando le montagne e scottandosi con il sole. Non hanno giocato fuori della porta verde, sui due grandi massi bianchi di calcare, dove per intero pomeriggi si inventavano giochi lunghi e pieni di fantasia.
Non hanno immerso le manine nell'acqua gelata della fontana. Non c'è più acqua ora. Le sorgenti si sono prosciugate , il fiume ha cambiato il cammino.
I miei bambini sono passato e non avranno futuro.
Io sono una persona che non ha più passato, né porterà nel futuro la sè stessa attraverso i propri figli.
Vivo un presente senza radici.
Mi sveglio nel cuore della notte sentendo il letto tremare, immaginando nuove scosse, inesistenti in realtà.
Ogni giorno prego che una donna mi doni la sua fertilità e mi regali un nuovo futuro da ricostruire.
Poi chiudo gli occhi e ripercorre le vie del mio paese che non é più.
“Il terremoto è un naufragio in terra. Le case diventano imbarcazioni scosse tra le onde e sbattute sugli scogli. Si perde tutto, si conserva la vita, lacera, attonita che conta gli scomparsi sul fondo delle macerie.
Si abita un suolo chiamato per errore terraferma. È terra scossa da singhiozzi abissali. Questi di stanotte sono partiti da oltre quattromila metri di profondità. Qualche giorno fa stavo agli antipodi, oltre quattromila metri sopra il mare. Quel monte delle Alpi non è un meteorite piovuto dal cielo, ma
il risultato di spinte e sollevamenti scatenati dal fondo del Mediterraneo. Forze gigantesche hanno modellato il nostro suolo con sconvolgimenti.
Si abita una terra precaria, ogni generazione cresce ascoltando storie di terremoti. Così, con le narrazioni, i vivi smaltiscono le perdite. Le macerie si spostano, si abita di nuovo lentamente, ma al loro posto restano le voci, le parole degli scaraventati all’aperto, a tetti scoperchiati. Ricordano, ammoniscono a non insuperbirsi di nessun possesso.
Arriva cieco di notte il terremoto e sconvolge i piccoli paesi. Ma i mezzi di soccorso sono di stanza nei grandi centri. Fosse un’invasione, quale generale accentrerebbe le sue forze lontano dai confini? Per il protettor civile questo ragionamento non vale. Ogni volta deve spostare le sue truppe con lento riflesso di reazione. Ai naufraghi nelle prime ore serve il conforto al cuore di un qualunque segnale di pubblica prontezza. Invece arriva prima un parente, un volontario, un giornalista. Il terremoto è anche un’invasione, contro la quale avere riserve piccole e pronte sparpagliate ovunque.
“Si sta come/ d’autunno/ sugli alberi/ le foglie”. La frase di guerra di cent’anni fa del soldato Ungaretti Giuseppe racconta il sentimento di stare attaccati all’ albero della vita con un solo piccolo punto di congiunzione”.
Erri De Luca
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